Publius Ovidius Naso
nacque a Sulmona nel 43 a.C. da una famiglia agiata, che gli garantì una
raffinata educazione letteraria. Fin da giovanissimo, alla politica preferì
l’arte poetica e, in particolare, la poesia erotica (compose giovanissimo gli Amores, e l’Ars amatoria) che gli procurò un notevole successo e
un’indipendenza economica.
In realtà l’opera che lo rese celebre
fino ai giorni nostri, è Metamorphosĕon
libri, una raccolta di 246 miti suddivisi in quindici libri. Ovidio riuscì
a ultimare la vastissima opera (circa 12500 versi) poco prima di venir
esiliato, per motivi a noi non pervenuti, a Tomi nell’8 d.C., dove morì dieci
anni più tardi.
Le
metamorfosi sono un’opera della maturità, composte a partire dal 2 d.C., quando
il poeta godeva già di grandissima fama e intendeva riprendere la sua
produzione, abbandonando però il tema erotico, che da sempre lo aveva
caratterizzato, per incentrarsi sul poema epico.
Le Metamorfosi è una raccolta completa
della mitologia classica: infatti raccoglie 246 miti greci e romani; ciò che
accomuna tutti i miti è la metamorfosi, come indica già il titolo. La metamorfosi
è la trasformazione del corpo in un altro corpo, che nei miti solitamente
avviene per sfuggire a una tragedia (come uno stupro) o in seguito a preghiere
invocate agli dei, o come punizione divina.
In Ovidio le
metamorfosi non modificano le caratteristiche fondamentali dei personaggi,
perché per il poeta non è la forma corporea e materiale a caratterizzare un essere,
bensì la sua anima, che in ogni mito, infatti, rimane inalterata anche in
seguito alla trasformazione: Clytie (IV,
vv. 206-sgg.), anche dopo essere diventata un fiore (il girasole), continua ad
amare e a cercare il suo caro Sole, seguendone il cammino: «et mutata servat
amorem» (IV, v. 270).
A valorizzare
questo concetto filosofico, espresso dai miti all’interno dei quindici libri, è
il lungo discorso di Pitagora nel XV libro (vv. 75-488), che riporta la teoria
della metempsicosi, ossia della
trasmigrazione dell’anima, dopo la morte del corpo, in un altro corpo. La
teoria è ripresa più volte nel discorso: «Morte carent animae semperque priore
relicta/sede novis domibus vivunt habitantque receptae» (XV, vv. 158-159) e
ancora «animam sic semper eandem/esse, sed in varias doceo migrare figuras»
(XV, vv. 171-172).
Inoltre, per bocca del sapiente
Pitagora, Ovidio rafforza la teoria delle metamorfosi come nuova vita: «omnia
mutantur, nihil interit» (XV, v. 165) che è alla base della sua opera. Infatti
le trasformazioni che avvengono nei miti non generano la morte, bensì una nuova
vita: Piramo e Tisbe danno vita ai frutti del gelso, la pianta sotto cui si
uccisero; Clizia divenne un girasole; le figlie di Minia vennero trasformate in
pipistrelli; Ino e Melicerta diventarono divinità marine; le donne tebane che
volevano uccidersi dopo la morte della regina Ino divennero ismenidi; Cadmo e
Armonia si trasformarono in serpenti, così come i capelli della Gorgone per
volere di Minerva; Altante divenne una grande montagna; i rami che toccarono la
testa della Medusa divennero corallo; dal sangue di Medusa nacque Pegaso, il
cavallo alato.
Per
lo più, i miti sono eziologici, ossia spiegano la causa di fenomeni naturali,
oppure cercano di spiegare l’esistenza di qualcosa: questa non è una novità
ovidiana, perché anche altri poeti, come Virgilio, avevano utilizzato il mito
per spiegare il perché delle cose e le cause della storia. Però l’oggettività
del mito, con Ovidio, si frantuma, per lasciare spazio ai diversi punti di
vista dei personaggi.
Salmacide e Ermafrodito, liber IV,
vv. 286-388
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Joseph-François Navez The nymph Salmacis and Hermaphroditus |
Il mito di Ermafrodito e Salmacide
occupa centodue versi del IV libro (vv. 286-388) e narra dell’amore non
corrisposto della «Nais» (v. 329) Salmacide per Ermafrodito, figlio bellissimo
di Mercurio e Venere, dai nomi greci dei quali viene ricavato il suo (Hermes e
Afrodite: Ermafrodito).
Del bel fanciullo, che si era avvicinato
alla fonte di Salmacide, si innamora la naiade, la quale viene subito assalita
da un «desiderio di possederlo» (trad. M. S. Abbate): «optavit habere» (v.
316).
Avvicinatasi al giovane, la ninfa lo
esorta ad unirsi a lei attraverso una lunga serie di lusinghe: «puer/[…]si tu
deus est, potes esse Cupido» (vv. 321-322), e definendo «beati» (v. 322), «felix»
(v. 323), «fortunata» (v. 323) e «beatior» (v. 325) tutti coloro che ebbero a
che fare con egli.
Salmacide, al termine del suo monologo,
lungo ben nove versi (vv. 320-328) fa riferimento al «thalamum» (v. 328), ossia
al letto nunziale. Ciò significa che la ninfa è ben disposta a sposare il
giovane amato; tuttavia il matrimonio viene rappresentato da un oggetto
materiale, luogo destinato all’unione sessuale: dunque Salmacide si serve del
matrimonio solo in relazione al thalamus e
all’atto sessuale.
L’amore ovidiano, infatti, non è
sentimentale e spirituale, ma per lo più è legato all’erotico, alla passione,
alla carne e all’atto sessuale: Salmacide «poscenti […]/oscula» (vv. 334-335,
in cui i due termini sono posti all’inizio, per essere messi in evidenza),
«manus […] ferenti» (v. 335). E dopo aver ricevuto il rifiuto da parte di
Ermafrodito, allontanandosi, lo vede spogliarsi e gettarsi nella fonte, e
allora «tum vero placuit, nudaque cupidine formae/Salmacis exarsit» (vv.
346-347) finché «vix moram patitur, vix iam sua gaudia differt,/iam cupit
amplecti» (vv. 350-351).
Il lessico utilizzato è fortemente
erotico, anche se la bravura del poeta sta nella capacità di non cadere mai nel
volgare, pur narrando fatti licenziosi. Le dettagliate ed appassionate
descrizioni delle brame sessuali sono la prova che Ovidio non ha mai
abbandonato i temi erotici delle opere della giovinezza. Tuttavia, se negli Amores e nell’Ars amatoria l’amore narrato era quello vissuto nella Roma
imperiale, nelle Metamorfosi l’amore diventa
una questione che accomuna dei e uomini, vittime allo stesso modo di passioni
irrefrenabili.
Salmacide, infatti, pur ricevendo
rifiuti da parte di Ermafrodito, stupra il giovane, bramosa della sua carne:
«pugnantem tenet, luctantiaque oscula carpit,/subiectatque manus, invitaque
pectora tangit/et nunc hac iuveni, nunc circumfunditur illac;/denique nitentem
contra elabique volentem/implicat» (vv. 358-362).
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Giovanni Carnovali detto il Piccio Salmace ed Ermafrodito, 1856 |
Il verbo «implicat» è posto all’inizio
del verso 362, in forte enjambement con
il resto della descrizione, sia per sottolineare la forza con cui la ninfa
compie lo stupro, sia per legare il verbo alla serie di paragoni successivi,
introdotti da «ut». Il poeta paragona la ninfa che stinge a sé Ermafrodito ad
un «serpens» (v. 362), agli «hederae […] truncos» (v. 365, in cui nome e
complemento di specificazione sono posti in iperbato), e ad un «polypus» (v.
366).
Anche in questo mito vi è una
metamorfosi: Salmacide, non potendo sopportare il rifiuto del fanciullo amato,
invoca gli dei affinché il loro corpi divengano uno, e, ai versi 373-375
avviene la trasformazione: «Vota suos habuere deos; nam mixta duorum/corpora
iunguntur, faciesque indicitur illis/una». Anche qui, l’evidente enjambement intende sottolineare la
parola «una», che è il termine della metamorfosi: infatti i due corpi si
uniscono e «nec femina/nec puer» (vv. 378-379) in cui l’anafora del «nec»
intende sottolineare l’inesistenza dei due sessi, che hanno lasciato il posto
ad un unico sesso ibrido.
Nonostante sia mutato, Ermafrodito
riesce a comunicare ai suoi genitori il desiderio di maledire quella fonte, e,
commossi, Mercurio e Venere acconsentono. Ecco perché da quel giorno, «quisquis
in hos fontes vir venerit, exeat inde/semivir et tactis subito mollescat in
undis!» (vv. 385-386).
È per questo che la fonte Salmacide, si
dice, indebolisca la virilità di chiunque si bagni nelle sue acque, rendendo il
vir un «semivir» (v. 386). Dunque il
racconto di Ermafrodito e Salmacide è eziologico, poiché viene utilizzato per
spiegare la causa di un evento.
Infine, interessante è notare
l’artificio con cui Ovidio è riuscito ad incastrare uno dentro l’altro, dei
miti che non hanno niente a che vedere tra loro: la tecnica utilizzata in tutta
l’opera è alessandrina, ed è definita “del racconto ad incastro”. Grazie a
questa tecnica è possibile avere un’infinità di narratori, perché i personaggi
stessi di alcuni miti raccontano altri miti. In questo caso, il mito di
Ermafrodito e Salmacide è narrato da Alcitoe, figlia del re di Orcòmeno, Minia,
la quale, rifiutandosi di festeggiare i baccanali, è riunita con le sorelle a
filare. L’ingegnosità di Ovidio è sorprendente perché fa raccontare alcuni miti
alle sorelle, le quali «utile opus manuum vario sermone» (v. 39) levant.
Questa tecnica provoca un effetto
labirintico che dà al lettore la sensazione di una narrazione infinita.
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