29 agosto 2014

P. Ovidio Nasone, Le Metamorfosi

Publius Ovidius Naso nacque a Sulmona nel 43 a.C. da una famiglia agiata, che gli garantì una raffinata educazione letteraria. Fin da giovanissimo, alla politica preferì l’arte poetica e, in particolare, la poesia erotica (compose giovanissimo gli Amores, e l’Ars amatoria) che gli procurò un notevole successo e un’indipendenza economica.
In realtà l’opera che lo rese celebre fino ai giorni nostri, è Metamorphosĕon libri, una raccolta di 246 miti suddivisi in quindici libri. Ovidio riuscì a ultimare la vastissima opera (circa 12500 versi) poco prima di venir esiliato, per motivi a noi non pervenuti, a Tomi nell’8 d.C., dove morì dieci anni più tardi.



Le metamorfosi sono un’opera della maturità, composte a partire dal 2 d.C., quando il poeta godeva già di grandissima fama e intendeva riprendere la sua produzione, abbandonando però il tema erotico, che da sempre lo aveva caratterizzato, per incentrarsi sul poema epico.
            Le Metamorfosi è una raccolta completa della mitologia classica: infatti raccoglie 246 miti greci e romani; ciò che accomuna tutti i miti è la metamorfosi, come indica già il titolo. La metamorfosi è la trasformazione del corpo in un altro corpo, che nei miti solitamente avviene per sfuggire a una tragedia (come uno stupro) o in seguito a preghiere invocate agli dei, o come punizione divina.
            In Ovidio le metamorfosi non modificano le caratteristiche fondamentali dei personaggi, perché per il poeta non è la forma corporea e materiale a caratterizzare un essere, bensì la sua anima, che in ogni mito, infatti, rimane inalterata anche in seguito alla trasformazione: Clytie (IV, vv. 206-sgg.), anche dopo essere diventata un fiore (il girasole), continua ad amare e a cercare il suo caro Sole, seguendone il cammino: «et mutata servat amorem» (IV, v. 270).
            A valorizzare questo concetto filosofico, espresso dai miti all’interno dei quindici libri, è il lungo discorso di Pitagora nel XV libro (vv. 75-488), che riporta la teoria della metempsicosi, ossia della trasmigrazione dell’anima, dopo la morte del corpo, in un altro corpo. La teoria è ripresa più volte nel discorso: «Morte carent animae semperque priore relicta/sede novis domibus vivunt habitantque receptae» (XV, vv. 158-159) e ancora «animam sic semper eandem/esse, sed in varias doceo migrare figuras» (XV, vv. 171-172).
Inoltre, per bocca del sapiente Pitagora, Ovidio rafforza la teoria delle metamorfosi come nuova vita: «omnia mutantur, nihil interit» (XV, v. 165) che è alla base della sua opera. Infatti le trasformazioni che avvengono nei miti non generano la morte, bensì una nuova vita: Piramo e Tisbe danno vita ai frutti del gelso, la pianta sotto cui si uccisero; Clizia divenne un girasole; le figlie di Minia vennero trasformate in pipistrelli; Ino e Melicerta diventarono divinità marine; le donne tebane che volevano uccidersi dopo la morte della regina Ino divennero ismenidi; Cadmo e Armonia si trasformarono in serpenti, così come i capelli della Gorgone per volere di Minerva; Altante divenne una grande montagna; i rami che toccarono la testa della Medusa divennero corallo; dal sangue di Medusa nacque Pegaso, il cavallo alato.
            Per lo più, i miti sono eziologici, ossia spiegano la causa di fenomeni naturali, oppure cercano di spiegare l’esistenza di qualcosa: questa non è una novità ovidiana, perché anche altri poeti, come Virgilio, avevano utilizzato il mito per spiegare il perché delle cose e le cause della storia. Però l’oggettività del mito, con Ovidio, si frantuma, per lasciare spazio ai diversi punti di vista dei personaggi.

Salmacide e Ermafrodito, liber IV, vv. 286-388
Joseph-François Navez
The nymph Salmacis and Hermaphroditus
Il mito di Ermafrodito e Salmacide occupa centodue versi del IV libro (vv. 286-388) e narra dell’amore non corrisposto della «Nais» (v. 329) Salmacide per Ermafrodito, figlio bellissimo di Mercurio e Venere, dai nomi greci dei quali viene ricavato il suo (Hermes e Afrodite: Ermafrodito).
Del bel fanciullo, che si era avvicinato alla fonte di Salmacide, si innamora la naiade, la quale viene subito assalita da un «desiderio di possederlo» (trad. M. S. Abbate): «optavit habere» (v. 316).
Avvicinatasi al giovane, la ninfa lo esorta ad unirsi a lei attraverso una lunga serie di lusinghe: «puer/[…]si tu deus est, potes esse Cupido» (vv. 321-322), e definendo «beati» (v. 322), «felix» (v. 323), «fortunata» (v. 323) e «beatior» (v. 325) tutti coloro che ebbero a che fare con egli.
Salmacide, al termine del suo monologo, lungo ben nove versi (vv. 320-328) fa riferimento al «thalamum» (v. 328), ossia al letto nunziale. Ciò significa che la ninfa è ben disposta a sposare il giovane amato; tuttavia il matrimonio viene rappresentato da un oggetto materiale, luogo destinato all’unione sessuale: dunque Salmacide si serve del matrimonio solo in relazione al thalamus e all’atto sessuale.
L’amore ovidiano, infatti, non è sentimentale e spirituale, ma per lo più è legato all’erotico, alla passione, alla carne e all’atto sessuale: Salmacide «poscenti […]/oscula» (vv. 334-335, in cui i due termini sono posti all’inizio, per essere messi in evidenza), «manus […] ferenti» (v. 335). E dopo aver ricevuto il rifiuto da parte di Ermafrodito, allontanandosi, lo vede spogliarsi e gettarsi nella fonte, e allora «tum vero placuit, nudaque cupidine formae/Salmacis exarsit» (vv. 346-347) finché «vix moram patitur, vix iam sua gaudia differt,/iam cupit amplecti» (vv. 350-351).
Il lessico utilizzato è fortemente erotico, anche se la bravura del poeta sta nella capacità di non cadere mai nel volgare, pur narrando fatti licenziosi. Le dettagliate ed appassionate descrizioni delle brame sessuali sono la prova che Ovidio non ha mai abbandonato i temi erotici delle opere della giovinezza. Tuttavia, se negli Amores e nell’Ars amatoria l’amore narrato era quello vissuto nella Roma imperiale, nelle Metamorfosi l’amore diventa una questione che accomuna dei e uomini, vittime allo stesso modo di passioni irrefrenabili.
Salmacide, infatti, pur ricevendo rifiuti da parte di Ermafrodito, stupra il giovane, bramosa della sua carne: «pugnantem tenet, luctantiaque oscula carpit,/subiectatque manus, invitaque pectora tangit/et nunc hac iuveni, nunc circumfunditur illac;/denique nitentem contra elabique volentem/implicat» (vv. 358-362).
Giovanni Carnovali detto il Piccio
Salmace ed Ermafrodito, 1856
Il verbo «implicat» è posto all’inizio del verso 362, in forte enjambement con il resto della descrizione, sia per sottolineare la forza con cui la ninfa compie lo stupro, sia per legare il verbo alla serie di paragoni successivi, introdotti da «ut». Il poeta paragona la ninfa che stinge a sé Ermafrodito ad un «serpens» (v. 362), agli «hederae […] truncos» (v. 365, in cui nome e complemento di specificazione sono posti in iperbato), e ad un «polypus» (v. 366).
Anche in questo mito vi è una metamorfosi: Salmacide, non potendo sopportare il rifiuto del fanciullo amato, invoca gli dei affinché il loro corpi divengano uno, e, ai versi 373-375 avviene la trasformazione: «Vota suos habuere deos; nam mixta duorum/corpora iunguntur, faciesque indicitur illis/una». Anche qui, l’evidente enjambement intende sottolineare la parola «una», che è il termine della metamorfosi: infatti i due corpi si uniscono e «nec femina/nec puer» (vv. 378-379) in cui l’anafora del «nec» intende sottolineare l’inesistenza dei due sessi, che hanno lasciato il posto ad un unico sesso ibrido.
Nonostante sia mutato, Ermafrodito riesce a comunicare ai suoi genitori il desiderio di maledire quella fonte, e, commossi, Mercurio e Venere acconsentono. Ecco perché da quel giorno, «quisquis in hos fontes vir venerit, exeat inde/semivir et tactis subito mollescat in undis!» (vv. 385-386).
È per questo che la fonte Salmacide, si dice, indebolisca la virilità di chiunque si bagni nelle sue acque, rendendo il vir un «semivir» (v. 386). Dunque il racconto di Ermafrodito e Salmacide è eziologico, poiché viene utilizzato per spiegare la causa di un evento.
Infine, interessante è notare l’artificio con cui Ovidio è riuscito ad incastrare uno dentro l’altro, dei miti che non hanno niente a che vedere tra loro: la tecnica utilizzata in tutta l’opera è alessandrina, ed è definita “del racconto ad incastro”. Grazie a questa tecnica è possibile avere un’infinità di narratori, perché i personaggi stessi di alcuni miti raccontano altri miti. In questo caso, il mito di Ermafrodito e Salmacide è narrato da Alcitoe, figlia del re di Orcòmeno, Minia, la quale, rifiutandosi di festeggiare i baccanali, è riunita con le sorelle a filare. L’ingegnosità di Ovidio è sorprendente perché fa raccontare alcuni miti alle sorelle, le quali «utile opus manuum vario sermone» (v. 39) levant.
Questa tecnica provoca un effetto labirintico che dà al lettore la sensazione di una narrazione infinita.

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