LA NATURA
Sturm und Drang:
La Natura era vista, dagli Stürmer und Dränger, come un luogo utopico, sfondo di rapporti sociali equi tra gli individui, senza
gerarchia o classi sociali. Questa visione era incentrata sul concetto di stato
di natura, espresso dal filosofo francese Jean-Jacques Rousseau nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti della
diseguaglianza tra gli uomini (1755). Il concetto di Natura spesso si
accompagnava a quello di forza
armonizzante del Tutto, ma tale concetto ebbe ulteriori sviluppi in così
poco tempo durante lo Sturm und Drang
e il Romanticismo che risulta difficile capire fin dove il concetto di natura
sia solo dello Sturm und Drang e fin
dove sia solo del Romanticismo.
Werther:
La
Natura viene intesa come vivente, animata, e considerata come una forza primordiale; la Natura è il luogo
in cui l'anima può esprimersi liberamente, trovando sfogo per la propria
malinconia, ispirazione per l'arte e comprensione.
Le
descrizioni naturalistiche sono numerose e ricche di particolari e spesso
Goethe crea un collegamento tra il
paesaggio descritto e l'animo del
personaggio.
Infatti,
le lettere del primo libro sono ambientate in primavera e in estate, e
quindi Goethe può ricorrere ad immagini colorate, dispiegate in grandi
ambienti aperti, dominate dalla luce del sole; nella seconda
parte invece anche la natura è diventata più ostica, più cupa, più tormentata.
Nel
libro I la natura viene vista non solo come lo specchio della felicità del
protagonista, ma, proprio per la sua descrizione durante le giornate di
primavera ed estate, essa viene anche colta come quella forza capace di
armonizzare gli elementi di quel Tutto di cui si compone, Tutto in cui
rientrano anche gli umani sentimenti. Essa è anche lo sfondo di rapporti
sociali autentici tra Werther e l'altra gente: durante il suo soggiorno nel
paesino dominato dalla natura, Werther accenna molto poco se non molto di rado
alla sua posizione sociale. La natura assume le caratteristiche di una forza
armonizzante (eredità dell'Illuminismo) e di luogo utopico nel quale le
gerarchie sociali non valgono (visione affine allo Sturm und Drang).
Nel libro II la natura viene invece ad assumere molto più fortemente la
caratteristica di specchio interiore del protagonista, quasi come fosse
un'emanazione o una creazione diretta dell'Io di Werther e delle sue sofferenze.
In questo momento Werther coglie la natura esprimersi in tutta la sua potenza
devastatrice.
26 maggio:
«La prima volta che per caso
capitai sotto i tigli in un bel pomeriggio, trovai il luogo solitario. Tutti
erano ai campi: soltanto un fanciullo di circa quattro anni sedeva per terra e
fra le gambe ne teneva un altro di forse sei mesi, stringendolo con le braccia
al petto in modo da fargli una specie di seggiola; e nonostante la vivacità con
la quale egli volgeva attorno i suoi occhi neri, sedeva perfettamente
tranquillo. Faceva piacere a vederlo; mi sedetti su un aratro che era lì di
fronte e disegnai con vero godimento la scena fraterna. Vi aggiunsi la siepe
che era vicina, una porta di fienile e alcune ruote rotte, così com'erano
disposte».
12 dicembre:
«Ieri sera ho dovuto uscire. Era
appunto cominciato il disgelo, e avevo sentito dire che il fiume era
straripato, che tutti i ruscelli erano gonfi e che da Wahlheim la mia amata
valle era inondata. Vi corsi tra le undici e mezzanotte. Era uno spaventoso
spettacolo vedere dalla roccia le onde agitate che turbinavano al chiarore
della luna sui campi, i prati e le siepi, e veder tutta la valle trasformata in
un mare tempestoso al soffio del vento. Quando la luna di nuovo apparve
posandosi sulle nuvole oscure e dinanzi a me e i flutti con un terribile,
magnifico riflesso si svolsero e risonarono, ero preso da un fremito e poi da
un desiderio: con le braccia aperte mi sporgevo sul baratro, e aspiravo
all'abisso fondo e mi smarrivo nella gioia di sommergere in quella tempesta i
miei tormenti, il mio dolore, di rotolare laggiù rumoreggiando come le onde».
I
RAPPORTI SOCIALI
Quello
che potrebbe sembrare un romanzo d’amore, in realtà dietro nasconde anche una
critica alle convenzioni sociali del Settecento. L’irrequietezza di Werther è
scaturita anche dal non riconoscersi né borghese, né nobile, e dal piacere che
trova nel conversare con le persone umili; Werther afferma, nella lettera del 15 maggio:
«So
bene che noi non siamo né possiamo essere tutti uguali; ma ritengo che colui il
quale sente il bisogno di allontanarsi dalla cosiddetta plebe per averne il
rispetto, è biasimevole quanto un codardo che si nasconda al suo nemico per
tema di esserne ucciso».
Il
giovane Werther stringe amicizie profonde con la gente del villaggio in cui va
a vivere, e durante il soggiorno a Wahlheim, dimentica la sua condizione di
borghese, tanto da non citare mai le convenzioni sociali.
«Di
recente andai alla fontana e trovai una giovane donna di servizio che aveva
posato il secchio sull'ultimo scalino e guardava intorno per vedere se nessuna
compagna venisse e l'aiutasse a posarselo sulla testa. Io scesi e la guardai. -
Posso aiutarvi? - le chiesi. Diventò rossa e disse: - Oh no, signore. - Senza
complimenti. - Si aggiustò il cercine e io l'aiutai. Mi ringraziò, e salì per
la scala».
27 maggio:
«A
sera una giovane donna venne verso i fanciulli che intanto non si erano mossi:
aveva un cestello infilato al braccio e gridava da lontano […] Mi salutò, io
ricambiai il saluto e, alzandomi, mi avvicinai a lei e le chiesi se fosse la
madre dei due bimbi. Mi disse di sì e, mentre dava al più grande una mezza
ciambella, prendeva in braccio il piccolo e lo baciava con tenerezza tutta materna.
"Ho
affidato il mio piccino a Filippo - mi disse – e sono andata in città col più
grande per comprare pane bianco, zucchero e un tegamino di terra". […].
"Ora voglio cuocere una minestra per stasera al mio Giovanni (era il nome
del più piccolo), quel birichino del mio figliolo maggiore mi ha rotto ieri il
tegame, disputandosi con Filippo gli avanzi della pappa". Domandai del
maggiore […] Mi intrattenni ancora con la donna e seppi […] che il marito era
in viaggio in Svizzera dove si era recato per raccogliere l'eredità di un
cugino. […] Mi fece pena staccarmi da quella donna: diedi un soldo a ciascuno
dei bimbi, e uno a lei perché comprasse per il piccolo un panino da aggiungere
alla pappa, quando sarebbe andata in città».
Questi
rapporti e amicizie contrastano fortemente con le relazioni superficiali e di
cortesia che il giovane dovette instaurare alla corte del conte C., di cui,
infatti, il giovane cuore inquieto si stancò presto.
8 gennaio:
«Che razza d'uomini sono quelli di cui l'anima è
tutta assorta dal cerimoniale, di cui ogni pensiero ed ogni sforzo tende a
sedersi a tavola, arrampicandosi su di una sedia più elevata! E non si può dire
che non abbiano occupazioni; al contrario, i lavori si accumulano per loro,
perché questi piccoli traffici impediscono il disbrigo degli affari
importanti […] Pazzi sono coloro i quali
non vedono che il posto non significa niente, e che colui che ha il primo posto
raramente ha l'ufficio più importante! Quanti re sono governati dai loro
ministri, quanti ministri dai segretari. Qual è dunque il primo? secondo me
colui che domina gli altri, che ha sufficiente potere o astuzia per far servire
le loro passioni all'esecuzione dei suoi piani».
L’episodio del ballo in società:
15 marzo:
«Infine il Conte venne da me, e mi trascinò nel vano
di una finestra. Voi conoscete, mi disse, i nostri strani costumi, vedo che la
società non è contenta di vedervi qui;
io non vorrei per niente al mondo... Io lo
interruppi: Eccellenza, vi faccio mille scuse; avrei dovuto pensarci prima, e so
che voi mi perdonerete questa assurdità; avrei già voluto prender congedo; un
cattivo genio mi ha trattenuto, gli dissi sorridendo, mentre mi inchinavo. Il
Conte mi strinse le mani con un'espressione che rivelava
tutto il suo animo. Silenziosamente mi allontanai
dalla compagnia, mi misi in una carriola e mi feci condurre a M. per veder
tramontare il sole dalla collina, e leggere in Omero quel mirabile canto che
narra come Ulisse fu ospitato dal guardiano dei porci: esso calzava a
pennello!»
Decide, alfine, di tornare in campagna.
I BAMBINI
«Sì, mio caro Guglielmo, i bambini sono
particolarmente cari al mio cuore. Quando li osservo, e vedo in quei piccoli
esseri il germe di ogni virtù e di ogni forza che un giorno sarà loro necessaria,
quando nell'ostinazione io scopro la futura costanza e fermezza di carattere,
nella vivacità il buon umore e la facilità con la quale passeranno fra i
pericoli della vita... e tutto questo così puro e completo, sempre io ripeto le
auree parole del Maestro degli uomini: guai a voi se non diverrete come
uno di costoro! Eppure noi trattiamo come sudditi
questi che sono nostri simili e che dovrebbero essere i nostri modelli. Essi
non devono avere nessuna volontà... E noi
forse non ne abbiamo? e perché dobbiamo essere
privilegiati? Forse perché siamo più vecchi e più abili? Buon Dio, dal tuo
cielo tu non vedi che vecchi e bambini, niente altro! e tuo figlio da lungo
tempo ci ha detto quali ti danno maggiore gioia. Ma essi credono in lui e non
lo ascoltano - anche questa è cosa vecchia - e formano i
loro bambini a loro immagine e somiglianza, e...
addio Guglielmo: non voglio a questo proposito delirare di più!»
L'EMILIA GALOTTI
«Il rantolo
era ancora spaventoso, ora debole, ora più forte: si attendeva la fine.
Aveva bevuto
soltanto un bicchiere di vino.
Il dramma di
Emilia Galotti era aperto sulla sua scrivania».
È
un simbolo importante la presenza sul tavolo di Werther, nell'ora decisiva del
suicidio, della tragedia antitirannica
Emilia Galotti (1772), che narra
come i sudditi si liberino dai principi attraverso il suicidio. Il rifiuto
del compromesso, la coerenza con sé stessi, il vedere
la sconfitta non tanto nella morte, ma nell'annientamento della società
vengono ancora più sottolineati da Goethe, che non si limita a mostrare il
confronto con l'aristocrazia, ma anche tra individuo e società borghese, rappresentando
emblematicamente un'intera generazione di giovani che si opponevano, con
profonda sensibilità, ad una società incapace di cambiare e rinnovarsi,
opprimendone le energie creative.
Emilia Galotti è un dramma
borghese in cinque atti, scritto da Gotthold Ephraim Lessing e diventato uno dei simboli dell'Illuminismo letterario. La
sua prima messa in scena il 13 marzo 1772.
L'autore
rielabora in questo dramma la leggenda romana di Virginia, narrata da Livio modificandola nei punti chiave.
Virginia fu un leggendario personaggio femminile romano, era una bella giovane
di famiglia plebea di cui si invaghì il decemviro Appio Claudio, che prima
tentò con denaro e lusinghe di corrompere la giovane, già fidanzata la quale
tuttavia resistette, poi convinse un suo cliente, Marco Claudio, a sostenere
che Virginia fosse una sua schiava. Virginia fu poi uccisa dal padre, il quale
non voleva che la figlia fosse disonorata.
Trama della tragedia:
Dopo
il suo incontro con la giovane borghese Emilia Galotti, l'assolutistico Principe di Guastalla, Hettore Gonzaga,
che se ne è follemente innamorato è convinto di farne la sua amante. Saputo che
Emilia sta per sposare il Conte Appiani dà pieni poteri al suo ciambellano
Marinelli per far saltare le nozze.
La carrozza di Appiani ed Emilia, diretta alla cerimonia, viene assalita da una
banda di briganti assoldati da Marinelli e il Conte Appiani viene ucciso.
L'imboscata era programmata nelle vicinanze della villa del Principe ed Emilia
vi viene condotta e lì viene accolta dal Gonzaga, ignara dell'intrigo dallo
stesso tramato.
Alla
villa arrivano anche la madre di Emilia e, poco dopo, la Contessa Orsina,
amante del Principe. Il quale ora, accecato dalla passione per Emilia, la vuol
mettere da parte. Orsina incontra il Gonzaga che però la fa allontanare. Gonfia
di rabbia, la Contessa, che non vuole lasciare la villa, incontra Odoardo
Galotti, padre di Emilia, e gli rivela alcuni aspetti del vile complotto posto
in atto dal Marinelli per ordine del principe. In un primo momento Odoardo
vorrebbe uccidere il Principe, ma è disarmato, la stessa Orsina allora gli dà
un pugnale. Ma il padre di Emilia esita e presto abbandona l'idea della
vendetta. Nel frattempo, per raggiungere il suo scopo, il Principe, sempre su
consiglio del Marinelli, prospetta di allontanare Emilia dai suoi genitori e
progetta una sistemazione forzata della ragazza dai Grimaldi, la famiglia del
suo cancelliere. Emilia, offesa e disperata dall'inaccettabile situazione
creatasi, provoca suo padre e infine gli chiede di toglierle la vita. A
quel punto il padre Odoardo la pugnala e alla sua esclamazione «Dio, che cosa
ho fatto!» Emilia pronuncia le sue ultime parole «Ha appena spezzato una rosa, prima che la tempesta la sciupasse».
Quando
entrano il Principe e Marinelli nella sala e scoprono il fatto con orrore, Odoardo
confessa e si mette nelle mani del Gonzaga, aspettando giudizio. Quest'ultimo,
da buon codardo, attribuisce al suo ciambellano la responsabilità della
tragedia e lo caccia in esilio.
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