Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante nel 1778. |
Nonostante fosse
stato educato a rispettare i canoni e le regole dei modelli utilizzati, Foscolo reinterpretò il sonetto, inserendo
nelle sue opere novità e aspetti personali. Il sonetto, ideato da Jacopo da
Lentini nel Duecento, è composto da due quartine e da due terzine di versi
endecasillabi. Generalmente ogni strofa racchiude un periodo ed un concetto,
tuttavia con Foscolo, questa caratteristica viene superata: infatti si nota
subito che il primo periodo della lirica non termina al verso 4, bensì al verso
11. La poesia è dunque formata da un macro periodo (vv. 1-11), composto da
numerose coordinate e subordinate, tutte collegate al primo verso, che è anche
la proposizione principale del periodo «Né più mai toccherò le sacre sponde»,
intorno a cui ruota il senso di tutta la composizione: la malinconia, il
ricordo della patria lontana e l’esilio; e da un periodo più breve e
sentenzioso, racchiuso nell’ultima terzina (vv. 12-14), che rappresenta il
triste epilogo non solo dell’opera in sé, ma anche della condizione del poeta.
A livello
sintattico la poesia è un flusso di coscienza che Foscolo inizia ricordando la
sua fanciullezza, con la dolce descrizione della sua madre patria, collegata
alla nascita di Venere, dea romana simbolo dell’amore, della fertilità e dunque
della vita; successivamente Foscolo
crea un legame con Omero, non solo perché nel IX libro dell’Odissea egli cita
Zante con l’epiteto «selvosa», che Foscolo riprende al verso 7 della lirica
descrivendo «le […] fronde» dell’isola, ma soprattutto perché egli cantò
l’«esiglio» (v. 9) di Ulisse, al quale Foscolo si sente vicino per le numerose
peregrinazioni. Ma il flusso di coscienza termina proprio quando Foscolo comprende
freddamente che, nonostante egli ed Ulisse siano legati, i loro destini sono
diversi, perché lui non tornerà mai nella sua amata patria.
Il lessico della
poesia è elevato, poiché ricorrono alcuni arcaismi e latinismi, ad esempio
«diverso» (v. 9): questo termine indica non solo il diverso esito dei viaggi di
Ulisse rispetto a quelli del poeta, ma
anche, nel significato originario del termine, «che va in diverse direzioni», e
può dunque essere parafrasato anche come «errabondo».
È inoltre evidente il
rimando alla nascita dell’«alma Venus»
(I, v. 2) lucreziana, «genetrix» e «voluptas» (I, v. 1) di uomini e dei. I
primi versi del De Rerum natura risuonano
nella seconda quartina del sonetto: «Te,
dea, te fugiunt venti, te nubila caeli/adventumque tuum, tibi suavis daedala
tellus/summittit flores, tibi rident aequora ponti/placantumque nitet diffuso
lumine caelum» (I, vv.6-9). Nelle due composizioni, così come in generale
in tutta la mitologia classica, Venere viene rappresentata come la madre di
ogni cosa, portatrice di vita e di speranza.
Alla «Venere» dell’inizio verso 5, infatti, Foscolo fa
corrispondere, grazie a due enjambement,
il termine «Zacinto» all’inizio del verso 3. Entrambi i termini, posti
all’inizio del verso, vengono risaltati; sono collegati dal tema della
maternità e dal tema dell’acqua, ambedue riconducibili all’isotopia della vita: Zacinto, in quanto isola, è
considerata terra emersa circondata completamente dall’acqua, così come Venere,
circondata dall’acqua, secondo il mito, emerse nella conchiglia. Inoltre
Zacinto è considerata «materna» (v. 13) poiché di Zacinto era originaria
proprio la madre di Foscolo, così come materna è la Venere «genetrix», dea fecondatrice.
L’acqua, che da sempre è il simbolo per antonomasia della
vita, è presente in tutta la poesia, e a livello ritmico, le rime «sponde» (v.
1), «onde» (v. 3), «feconde» (v. 5) e «fronde» (v. 7) rimandano al tema dell’acqua («sponde» e
«onde») e al tema della vita («feconde» e «fronde»), strettamente connessi.
Inoltre, nella lirica, l’acqua è simbolo di vita anche grazie all’accostamento del
termine «illacrimata» (v. 14), cioè priva di acqua, e «sepoltura» (v. 14), che
rappresenta la morte, e dunque l’assenza di vita.
In fondo Foscolo alla vita non poteva contrapporre
nient’altro se non la morte, poiché condivideva la visione materialistica del
«nulla eterno» (Alla sera, v. 10) che
considerava chiuso definitivamente il ciclo vitale con la morte. Anche questa
visione è ripresa da Lucrezio e dall’epicureismo, che vedevano la morte come il
semplice smembramento degli atomi del corpo e dell’anima.
Nella prima terzina, che si apre con una perifrasi iniziata
al verso 8: «colui che le acque/ cantò fatali» che si riferisce ad Omero,
Foscolo crea un collegamento con Ulisse, il quale dopo «il diverso esiglio» (v.
9) riuscì a baciare la sua «petrosa Itaca» (v. 11). Il termine «petrosa» è
rilevante perché descrive un’isola scarna, sassosa che è dunque in
contrapposizione con le «fronde» (v. 7) di Zacinto. C’è un contrasto tra l’eroe
classico, che riesce nella sua impresa, e torna a casa, e l’eroe romantico, con
lo «spirto guerrier» (Alla sera, v.
14) agitato e burrascoso che invece è costretto a vivere nelle «torme» delle
sue «cure» (Alla sera, vv. 11-12)
senza poter sperare di tornare in un «porto» (In morte del fratello Giovanni, v. 11) sicuro se non dopo la «quiete»
(In morte del fratello Giovanni, v.
11) della morte. Il contrasto è anche tra le terre amate, e Foscolo è chiaramente
amareggiato perché Ulisse, nonostante Itaca sia pietrosa e incolta, comunque è
riuscito a tornarvi, mentre lui non ha altro se non il ricordo della sua
«materna terra» (v. 13), e alla sua terra arriverà «non altro che il canto […]
del figlio» (v. 12).
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