28 agosto 2014

Ugo Foscolo, A Zacinto (1803)


Io non toccherò mai più le sacre coste/ dove vissi la mia fanciullezza,/ oh, mia Zacinto, che ti specchi nelle onde/ del mar Ionio da cui, vergine, nacque// Venere e rese quelle isole fertili/ con il suo primo sorriso, per cui vennero celebrati/ il tuo cielo sereno e  i tuoi alberi verdeggianti/ da colui (Omero) che cantò le peregrinazioni// volute dal destino e l’esilio in terre lontane,/ in seguito ai quali Ulisse, famoso per la gloria e per le sventure,/ baciò la sua rocciosa Itaca.// Oh, mia terra materna,/ tu non avrai null’altro che il canto di tuo figlio:/ a noi, infatti, il destino ha riservato/ una tomba illacrimata.



Niccolò Ugo Foscolo nacque a Zante nel 1778.
Ugo Foscolo compose moltissimi sonetti, fin da ragazzo, anche se nella sua raccolta Poesie del 1803 ne pubblicò solo dodici. Uno tra i più famosi è A Zacinto, opera in cui il poeta ricorda malinconicamente la terra madre, l’attuale isola di Zante, creando un collegamento tra se stesso e Ulisse, entrambi costretti alla lontananza dalla loro patria natia, ma con esiti diversi: infatti, se Ulisse riuscì a baciare nuovamente la sua Itaca, Foscolo sa bene che non gli sarà mai più concesso di tornare nella sua amata terra, neanche dopo la morte.
                Nonostante fosse stato educato a rispettare i canoni e le regole dei modelli utilizzati,  Foscolo reinterpretò il sonetto, inserendo nelle sue opere novità e aspetti personali. Il sonetto, ideato da Jacopo da Lentini nel Duecento, è composto da due quartine e da due terzine di versi endecasillabi. Generalmente ogni strofa racchiude un periodo ed un concetto, tuttavia con Foscolo, questa caratteristica viene superata: infatti si nota subito che il primo periodo della lirica non termina al verso 4, bensì al verso 11. La poesia è dunque formata da un macro periodo (vv. 1-11), composto da numerose coordinate e subordinate, tutte collegate al primo verso, che è anche la proposizione principale del periodo «Né più mai toccherò le sacre sponde», intorno a cui ruota il senso di tutta la composizione: la malinconia, il ricordo della patria lontana e l’esilio; e da un periodo più breve e sentenzioso, racchiuso nell’ultima terzina (vv. 12-14), che rappresenta il triste epilogo non solo dell’opera in sé, ma anche della condizione del poeta.
                A livello sintattico la poesia è un flusso di coscienza che Foscolo inizia ricordando la sua fanciullezza, con la dolce descrizione della sua madre patria, collegata alla nascita di Venere, dea romana simbolo dell’amore, della fertilità e dunque della vita; successivamente Foscolo crea un legame con Omero, non solo perché nel IX libro dell’Odissea egli cita Zante con l’epiteto «selvosa», che Foscolo riprende al verso 7 della lirica descrivendo «le […] fronde» dell’isola, ma soprattutto perché egli cantò l’«esiglio» (v. 9) di Ulisse, al quale Foscolo si sente vicino per le numerose peregrinazioni. Ma il flusso di coscienza termina proprio quando Foscolo comprende freddamente che, nonostante egli ed Ulisse siano legati, i loro destini sono diversi, perché lui non tornerà mai nella sua amata patria.
                Il lessico della poesia è elevato, poiché ricorrono alcuni arcaismi e latinismi, ad esempio «diverso» (v. 9): questo termine indica non solo il diverso esito dei viaggi di Ulisse rispetto a quelli del poeta,  ma anche, nel significato originario del termine, «che va in diverse direzioni», e può dunque essere parafrasato anche come «errabondo».
È  inoltre evidente il rimando alla nascita dell’«alma Venus» (I, v. 2) lucreziana, «genetrix» e «voluptas» (I, v. 1) di uomini e dei. I primi versi del De Rerum natura risuonano nella seconda quartina del sonetto: «Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli/adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus/summittit flores, tibi rident aequora ponti/placantumque nitet diffuso lumine caelum» (I, vv.6-9). Nelle due composizioni, così come in generale in tutta la mitologia classica, Venere viene rappresentata come la madre di ogni cosa, portatrice di vita e di speranza.
Alla «Venere» dell’inizio verso 5, infatti, Foscolo fa corrispondere, grazie a due enjambement, il termine «Zacinto» all’inizio del verso 3. Entrambi i termini, posti all’inizio del verso, vengono risaltati; sono collegati dal tema della maternità e dal tema dell’acqua, ambedue riconducibili all’isotopia della vita: Zacinto, in quanto isola, è considerata terra emersa circondata completamente dall’acqua, così come Venere, circondata dall’acqua, secondo il mito, emerse nella conchiglia. Inoltre Zacinto è considerata «materna» (v. 13) poiché di Zacinto era originaria proprio la madre di Foscolo, così come materna è la Venere «genetrix», dea fecondatrice.
L’acqua, che da sempre è il simbolo per antonomasia della vita, è presente in tutta la poesia, e a livello ritmico, le rime «sponde» (v. 1), «onde» (v. 3), «feconde» (v. 5) e «fronde» (v. 7)  rimandano al tema dell’acqua («sponde» e «onde») e al tema della vita («feconde» e «fronde»), strettamente connessi. Inoltre, nella lirica, l’acqua è simbolo di vita anche grazie all’accostamento del termine «illacrimata» (v. 14), cioè priva di acqua, e «sepoltura» (v. 14), che rappresenta la morte, e dunque l’assenza di vita.
In fondo Foscolo alla vita non poteva contrapporre nient’altro se non la morte, poiché condivideva la visione materialistica del «nulla eterno» (Alla sera, v. 10) che considerava chiuso definitivamente il ciclo vitale con la morte. Anche questa visione è ripresa da Lucrezio e dall’epicureismo, che vedevano la morte come il semplice smembramento degli atomi del corpo e dell’anima.


Nella prima terzina, che si apre con una perifrasi iniziata al verso 8: «colui che le acque/ cantò fatali» che si riferisce ad Omero, Foscolo crea un collegamento con Ulisse, il quale dopo «il diverso esiglio» (v. 9) riuscì a baciare la sua «petrosa Itaca» (v. 11). Il termine «petrosa» è rilevante perché descrive un’isola scarna, sassosa che è dunque in contrapposizione con le «fronde» (v. 7) di Zacinto. C’è un contrasto tra l’eroe classico, che riesce nella sua impresa, e torna a casa, e l’eroe romantico, con lo «spirto guerrier» (Alla sera, v. 14) agitato e burrascoso che invece è costretto a vivere nelle «torme» delle sue «cure» (Alla sera, vv. 11-12) senza poter sperare di tornare in un «porto» (In morte del fratello Giovanni, v. 11) sicuro se non dopo la «quiete» (In morte del fratello Giovanni, v. 11) della morte. Il contrasto è anche tra le terre amate, e Foscolo è chiaramente amareggiato perché Ulisse, nonostante Itaca sia pietrosa e incolta, comunque è riuscito a tornarvi, mentre lui non ha altro se non il ricordo della sua «materna terra» (v. 13), e alla sua terra arriverà «non altro che il canto […] del figlio» (v. 12).

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